Chiesa Di San Giorgio E L’Oratorio

Chiese

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Descrizione

L’attuale chiesa parrocchiale d’Illasi è dedicata a San Giorgio e risale nella sua struttura primaria al 1847, dopo la demolizione della Pieve a lui dedicata.
Il suo prospetto frontale è d’impronta neoclassica, caratterizzato da quattro semicolonne con possenti capitelli corinzi e un deciso timpano sovrastante che culmina con una alta croce in ferro; l’interno è a croce latina, che richiama alla classicità dei modelli palladiani (San Giorgio a Venezia).
La Pieve di San Giorgio fu un centro religioso molto importante per la vallata, nominata in una bolla di papa Eugenio III nel 1146 e altri documenti presso la Biblioteca Capitolare di Verona certificano la sua esistenza nel 1157.
Dopo diversi interventi di recupero, di rafforzamento delle strutture e considerando le necessità legate all’aumento della popolazione, nel 1880 si progettò l’ampliamento dell’odierna chiesa ad opera dell’architetto don Angelo Gottardi. Il suo intervento si concentrò nell’ampliamento del presbiterio, collocando grandiose colonne, disposte agli angoli e a semicerchio attorno al coro.
Nel novembre del 1865, don Luigi Perbellini, allora parroco di Illasi, fu trasferito alla Cattedrale di Verona. Il presbiterio fu completato da don Simoncelli che gli succedette, mentre con Don Balconi si completarono il soffitto, le pareti e il pavimento. Gli altari laterali furono portati ad Illasi da don Angelo Vicentini che appartenevano alla distrutta chiesa di San Sebastiano di Verona. Commissionò al Salomoni e al Marai le tele delle lunette e le pale degli altari, completò la cappella dell’Immacolata con l’altare barocco dell’Oratorio di San Rocco, ricompose l’assetto campanario e pagò personalmente i banchi in rovere.
Nel 1941 don Pietro Schena, in concomitanza con il centenario, affidò all’artista Carlo Donati la decorazione completa della chiesa.
Pregevole l’altare maggiore con i suoi marmi policromi edificato da don Veneri nel 1761, completato con due statue raffiguranti San Giorgio e san Bartolomeo patrono del paese dello Schiavi. Annesso alla Chiesa parrocchiale d’Illasi vi è l’oratorio eretto nel 1912.
Nella sacrestia della parrocchiale di San Giorgio è conservata un’opera di notevole importanza una Madonna con Bambino e Angeli attribuita a seconda dei vari studi della critica alla scuola di Stefano da Zevio o Antonio Badile.
La sistemazione originaria di questa opera fu la lunetta decorativa del protiro della pieve di Illasi demolita nel secolo scorso. Il protiro, nelle chiese romaniche, è un atrio porticato posto davanti al portale, costituito da colonne poggianti su leoni stilofori, che sorreggono una volta; parte determinante nella composizione della facciata a salienti come nell’Abbazia di Villanova di San Bonifacio o San Zeno a Verona. Più probabilmente simile all’attuale protiro sospeso ad edicola della chiesa romanica di San Giovanni in Valle. L’affresco, di dimensioni 2,275 x 1,945 cm con la parte superiore semicircolare e il conseguente campo pittorico, è dato nella figura d’insieme dai limiti delle parti e trovava alloggio in alto sopra l’architrave dell’ingresso oltre il protiro

probabilmente pensile, come nella chiesa della Disciplina di Tregnago, dove la visualizzazione decorativa è data più dalla pittura che dall’architettura. Come tutti gli affreschi parietali esterni temono gli agenti atmosferici che ne alterano i pigmenti e il supporto dell’intonaco: una delle funzioni delle falde di copertura del tettuccio era di ripararlo. Non a caso la parte meglio conservata è la superiore quella vicina all’arco. Il fatto che si sia valutato di salvarlo nel momento della demolizione della pieve, è legato probabilmente alla devozione popolare, che si attribuiva alle immagini votive affrescate sulle facciate, funzioni protettive e alla sua fama che lo ha portato fino a noi. Fu staccato dal frontale con una tecnica a massello, un blocco di pietra parallelepipeda con conseguente strappo e trasporto su tela. Il dipinto, aldilà delle attribuzioni o a Stefano da Zevio, o ad un suo seguace anonimo, o ad Antonio Badile, come attualmente la critica è orientata, non svilisce la sua rilevanza, essendo figure importanti della cultura artistica veronese del xv secolo.
La Madonna è posta al centro della costruzione scenica visiva di un giardino, sulle ginocchia sorregge il Bambino, contornata da Angeli cantori e ai suoi piedi un elegante pavone. L’Hortus Conclusus è in pittura un giardino recintato con piante e fiori del Paradiso, mentre in architettura è il chiostro del monastero, luogo di studio, meditazione e classificazione delle piante. Colpisce la relazione timbrica tra le due figure inscritte in campiture cromatiche opposte, la Vergine avvolta in un manto blu scuro e al suo fronte il corpo chiaro e nudo del Bimbo. Sicuramente un effetto cromatico voluto e tipico dell’iconografia sacra tarda medioevale.
Ricorda nella posizione altre Madonne sedute per terra, su un ampio e morbido cuscino in un campo fiorito, come quella Dell’Umiltà di Porto di Legnago di Ranuccio Arvari o alle più celebri Madonna del Roseto di Michelino da Besozzo e Madonna della Quaglia di Pisanello al museo di Castelvecchio.
L’elemento conduttore di tutta la composizione è la linea, che inscrive elegantemente in un’architettura vegetale i vari soggetti singolarmente o in gruppo, con liricità ricercata e sinuosa. Si sofferma in particolare sui volti, sulle mani, nei decori, sugli atteggiamenti e via via sulle fronde di giovani arbusti che creano piani diversi di profondità e sul tappeto del prato in primo piano, oggi in parte perduto, come il drappeggio rosso che segue a modo di fondale la circolarità della scena. L’orto doveva essere costellato di margherite, violette, fiori di campo, ed erbe dalle foglie minute, resi nei minimi particolari, sottili come ricami a filo d’oro e simili alle stoffe pregiate del tempo.
La relazione tra le figure è negli sguardi, nella reciprocità soave che trasmette serenità, calma, trova piacere nel piccolo pollice del piede che il Bambino prende con la mano come per gioco o per tormento premonitore. La figura materna è avvolgente nella sua protezione simbolica e pittorica, dove il viso e le mani affusolate con le dita leggermente aperte sono punti luminosi ed emergono per rassicurare entrambe le figure. Le fattezze del volto, i tratti fisionomici descritti da molti studiosi dell’arte come ingenui e troppo rosei, confermano nel “fare disegno” l’esecuzione di mani meno esperte di Stefano tanto da non considerarla sua opera e di attribuirla ad un allievo. Lievi i tratti fisionomici, le labbra delicate, contornato dai ricci capelli biondi che lo incorniciano e lo rendono reale prosecuzione del collo inclinato in diretto contatto con il piccolo bambino dall’anatomia morbida, dove liscia priva d’impatti chiaroscurali scorre la luce.
Prevale però ad un’attenta analisi una semplicità non riduttiva, ma naturale, innocente, come il rosa acceso del volto di una Madre in contemplazione e che trova risposta a tanti interrogativi proprio nel Figlio. La sua regalità, simile alle Maestà in trono senesi e fiorentine, è fortemente espressa dalla corona finemente lavorata e descritta nei particolari dorati a tratti incisi e punteggiati nell’intonaco a fresco. Nella parte in alto, in spazialità quasi simmetrica, sono posti alle loro spalle, due gruppi di tre angeli vestiti con lunghe tuniche di diverso colore, dai panneggi morbidi, le lunghe policrome ali arcuate dove ancora oggi s’intravedono i tocchi veloci dell’artista che incidono l’intonaco e danno forma alle piume, ricordano per molti aspetti gli Angeli con cartigli di San Fermo. Due sono seduti su una gamba e mettono in vista il piede, reggono a leggio dei testi sacri, gli altri sono in piedi, le braccia conserte arrotolate nelle vesti, in atto di preghiera e lo sguardo è rivolto verso il basso, la bocca socchiusa di chi recita un salmo o un canto.
In primo piano sulla base orizzontale è posto un superbo pavone che incarna nel suo andamento fiero molte simbologie del credo tardo medioevale. Gli animali dell’aria rappresentavano l’anima, il librarsi verso dimensioni ultraterrene o Gesù Cristo Salvatore dell’umanità. Gli uccelli, dunque, sono soggetti “giusti” molto utilizzati come veicoli didattici del messaggio cristiano. Ad esempio: il cardellino è la prefigurazione della Passione di Cristo, la rondine la Resurrezione intesa come una rinnovata rinascita, la colomba la pace e lo Spirito Santo, il pellicano la carità incondizionata dei genitori per i figli. Il pavone con la sua regalità rappresenta nella simbologia cristiana l’immortalità in questo caso sottolinea e accentua la “missione” e il futuro destino del Salvatore.
Il suo collo lungo è leggermente arcuato, il becco curvo perfetto nella forma, i suoi colori ora spenti, piatti in campi cromatici uniformi, dovevano essere sgargianti, come il vestito di un re, con le piume lunghissime della coda con all’apice l’occhio. Nella mitologia classica era la personificazione del sacro a Giunone, sposa di Giove, conduceva il carro della regina degli dei.
Il Cristianesimo delle origini conferisce a quest’animale molti significati, legati all’annuale caduta delle penne che rispuntavano in primavera emblema della rinascita spirituale dell’immortalità e della Resurrezione. E’ per questo che diverrà soggetto ricorrente anche in molte opere rinascimentali di Rubens e di molti artisti italiani dei secoli successivi.
Ritornando al probabile autore si ritiene prodotta da un seguace di Stefano da Verona ( o da Zevio) o un artista della sua cerchia culturale o in senso riduttivo a Giovanni Badile, ma resta però la convinzione che in ogni modo è espressiva e di particolare riferimento per lo studio del clima gotico veronese che l’ha rivalutata proprio con la mostra itinerante dedicata al Pisanello e ai luoghi del Gotico Internazionale del Veneto nel 1996.

M. D. F.

Modalità di accesso

Seguendo l'orario di apertura

Indirizzo

Piazza Libertà

Ultimo aggiornamento: 11/12/2023, 17:47

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